La rubrica "spilli" ospita articoli e brevi saggi originali che abbiano come scopo quello di stimolare e far riflettere sulla storia contemporanea. Gli spilli pungono, così anche gli articoli pubblicati in questa rubrica risulteranno pungenti, destinati a sollevare dibattiti.
Premessa
Questo scritto è la rielaborazione della conferenza intervista tenutasi il 15 febbraio 2015 a Polesella nell’ambito del progetto “Davide contro Golia”, finanziato dalla Regione del Veneto. Gli autori hanno rivisto domande e risposte, hanno arricchito il testo con alcune note e alcuni rimandi per rendere più scientifico e fruibile agli studiosi il testo.
L’esempio dei capi
D. Pochi anni fa è uscito il libro del giornalista Lorenzo Del Boca che si intitolava “Grande guerra, piccoli generali”[1]. In sostanza si dipingevano i generali dell’esercito italiano come degli autentici macellai. Nella presentazione del suo libro si legge: “i guai maggiori di chi combatteva per l'Italia vennero dagli stessi italiani che dimostrarono di non aver maturato alcuna idea e che, tuttavia, a quel nulla, si aggrapparono con convinzioni incrollabili. Si armarono di ordini assurdi. Pretesero di mandare le truppe all’assalto anche quando ogni logica l’avrebbe sconsigliato. Instaurarono un regime di oppressione che sarebbe risultato odioso per una qualunque dittatura. E provocarono la morte di un numero imprecisato di loro uomini”. Tu invece ci parli di una storia diversa…
R. I giornalisti che scrivono di storia, a volte, cercano lo scoop, vogliono suscitare reazioni a effetto. Gli storici devono cercare di fare la storia, di essere scientifici, documentati. Del Boca parla di generali italiani come di uomini insensibili alle condizioni di vita dei soldati, al dramma dell’esperienza di trincea, incapaci di prevedere, interpretare, capire le condizioni di guerra e di adattarne, di conseguenza, le strategie. Anche se vera per certi aspetti, mi sembra un’immagine forzata, e se applicata alla totalità dei generali italiani certamente ingenerosa, per certi versi sbagliata. Quello che vorrei dire è che esiste anche un’altra storia, quella di generali e alti ufficiali che seppero essere d’esempio, che vollero vivere a contatto con i propri soldati, che morirono in trincea o andando all’assalto delle posizioni nemiche alla testa dei propri reparti. Quei generali, l’ho scritto anche in un precedente saggio[2], furono molto apprezzati dai soldati, fin quasi a diventare miti viventi, trascinatori autentici di truppe lanciate alla conquista di posizioni quasi inaccessibili. Questo è un aspetto che Del Boca e altri trascurano. Come in tutte le cose, restano pagine nascoste, che forse fanno meno rumore. Di certo non intendo dire che non furono commessi degli errori, all’inizio della guerra ad esempio avevamo una soverchiante superiorità di truppe che non sapemmo sfruttare, ma per il resto ritengo che ci sia da approfondire anche il momento storico in cui l’Italia entra in guerra e le oggettive condizioni che dovette affrontare il comando supremo. Il piano di guerra (Cadorna fu costretto a preparare un piano con un cambio di alleanze, non dimentichiamolo) fu preparato per sfondare il fronte nell’area giuliana. Non riuscimmo a sfruttare la sorpresa, cercammo allora di sfondare con una serie di spallate molto dispendiose. Poi che non avessimo armamenti sufficienti, all’altezza, è vero. Ma non dimentichiamoci che nei piani del governo la guerra doveva essere rapida, dovevamo sfondare e vincere in fretta. Non pensavamo di impantanarci in una tragica guerra di posizione. Io, ripeto, non voglio dire che la condotta della nostra guerra sia stata perfetta, ci mancherebbe, e nemmeno disonorare i tanti soldati che hanno perso la vita in combattimento. Eviterei però di arrivare all’esagerazione opposta, come fanno alcuni, dicendo che tutti i generali italiani furono dei mediocri ufficiali, insensibili e incompetenti.
D. Appurato quindi che non la pensi come Del Boca, come puoi coniugare l’idea di associare all’azione dei generali italiani i termini “esempio” e “capi”?
R. Non ho inventato niente con questa associazione di concetti. Esiste infatti un bel libro di uno degli storici militari che andava per la maggiore nel periodo del fascismo, Amedeo Tosti, e che si intitola proprio così (L’esempio dei capi). Ebbene, ci sono più di venti generali italiani che morirono in guerra, un numero che non ha pari negli altri eserciti europei. Si tratta di generali che sacrificarono la propria vita per essere d’esempio, che dimostrarono dosi di eroismo e sprezzo del pericolo straordinarie. Se ne raccontiamo alcune storie possiamo capirlo. Il primo a morire fu Antonio Cantore, sulle Tofane. Si espose da un parapetto in trincea, in prima linea, e venne colpito da un cecchino. Era stato un generale coraggiosissimo anche durante la guerra italo-turca. In realtà su Cantore si dice anche che sia stato ucciso da fuoco amico, ma non so dire se si tratta di una verità o di una diceria. Negli ultimi anni sono state fatte ricognizioni sul suo berretto da ufficiale, sulla larghezza del foro di entrata del proiettile che, secondo qualcuno, corrisponderebbe a un calibro italiano. Davvero, mi sembrerebbe molto strano che un soldato italiano, con quello che rischiava di fronte a un delitto simile, avesse potuto pensare di uccidere un generale. Non mi spiegherei, per quei tempi, un clima omertoso da post omicidio. Preferisco pensare che Cantore sia morto da eroe, in prima linea, ma, come detto, non fu il solo. Di Antonino Cascino, uno dei primi a entrare in Gorizia, alla testa della brigata Avellino, possiamo ricordare come, ferito gravemente a una coscia da una scheggia, volle restare in linea ad ogni costo, e venne ucciso dall’infezione che gli derivò da quel gesto di coraggio estremo. Ma molti altri persero la vita in circostanze eroiche. Vogliamo parlare di Antonio Chinotto, che, pur infermo, si fece trasportare in prima linea per seguire le operazioni e morì, o di Tommaso Monti, Carlo Montanari, Achille Papa, generali generosi e molto amati dai propri uomini che condivisero la tragica sorte morendo in prima linea, all’attacco di posizioni nemiche, senza paura o esitazione alcuna. Insomma, tutti questi generali furono sempre in prima linea, condivisero con i soldati le sofferenze della vita di trincea, furono in mezzo a loro, davanti a loro, e condivisero il tragico destino della morte. Se in guerra, il supremo dovere per la patria poteva significare anche morire, questi generali furono fulgido esempio.
D. Hai parlato della guerra di trincea, degli attacchi frontali. Ma la guerra si poteva condurre in modo diverso? C’era la possibilità di risparmiare qualche centinaio di migliaia di vite umane? E i generali potevano sottrarsi a questa responsabilità?
La guerra si poteva condurre diversamente? Oggi, col senno di poi, potremmo dire di si, ma la storia non si scrive rapportandosi al dopo, alle teorie successive, ai modelli che abbiamo imparato a conoscere perché sono attuali. Noi dobbiamo cercare di capire le teorie di ieri, i conflitti combattuti con i mezzi a disposizione, e con le concezioni di allora, l’addestramento dei soldati del tempo. E la guerra della fanteria, l’attacco frontale a ondate successive, di stile napoleonico, era ancora la guerra teorica dei primi del novecento. Il libro di Cadorna, capo di stato maggiore, aveva, a tal proposito, un titolo emblematico: attacco frontale e ammaestramento tattico. E allora dobbiamo capire che l’idea dell’attacco frontale e le concezioni tattiche che stavano alla base delle teorie cadorniane non erano, si badi bene, diverse da quelle degli altri eserciti europei.
Bene, successivamente si è sparato a zero sui generali italiani e per certi versi ci può stare. Ma altrove come andò? I nostri italiani furono davvero generali più scadenti rispetto a quelli degli altri paesi europei? Non mi pare che i generali tedeschi, eredi della grande tradizione militare prussiana, siano stati più brillanti dei nostri generali. Anche il fronte franco tedesco vide consumarsi decine di carneficine in nome della teoria dell’attacco frontale. O forse dovremmo pensare che furono più brillanti i generali francesi, gli inglesi, i russi, gli austro ungarici? Abbiamo conto di grandi operazioni, di manovre avvolgenti in grado di cambiare il corso della guerra? Non mi pare. Quindi che dovremmo dire? I generali europei furono figli dei loro tempi, tempi in cui l’arma per eccellenza era la fanteria. È vero che nella prima guerra mondiale si sviluppano concezioni anche nuove, applicate e non (si veda ad esempio la teoria del dominio dell’aria dell’italiano Giulio Douhet). Ma sono frutto delle condizioni sperimentate sui fronti europei. Le battaglie che vediamo in Europa furono la base empirica per lo sviluppo di nuove strategie. Il dramma della prima guerra mondiale sta anche nello straordinario sviluppo tecnologico degli armamenti. L’arma tradizionale, la fanteria, combatte, con strategie tradizionali, una guerra avanzata e sviluppata tecnologicamente. Colpa dei generali? Può darsi. Di certo anche delle contingenze.
D. Quando parliamo di generali italiani non possiamo non pensare ai due comandanti in capo dell’esercito: Luigi Cadorna e Armando Diaz. Due personalità diverse, ma egualmente ferrei. Ci racconti qualcosa di più di questi due protagonisti, specie nel loro ruolo di capi di stato maggiore?
R. Erano sicuramente due generali diversi, per formazione, esperienze, carattere. Cadorna era figlio di Raffaele Cadorna, il generale di Porta Pia. Piemontese, nobile. Diaz, napoletano, borghese, proveniva da una famiglia di origine spagnola. Cadorna ebbe molta stima di Diaz, che operava con lui allo stato maggiore. Ma rispetto a Diaz interpretò con maggior personalismo il suo ruolo di comandante in capo: era più autoritario, meno collegiale nelle decisioni, più fermo e duro di carattere, meno disposto a mediare con le esigenze della politica e del governo, che arrivava quasi a disprezzare considerando invece il suo ruolo, di militare, fondamentale nella gestione della guerra. Si è parlato addirittura che aspirasse, per mettere a tacere le voci del pacifismo (che veniva considerato disfattismo), a una sorta di ruolo dittatoriale. Diaz invece venne scelto dalla politica, pare dal Re in persona, e venne considerato persona più malleabile, in grado di mediare le diverse esigenze, anche internazionali. C'è da dire che operarono in momenti molto diversi, ma la strategia di Cadorna fallì miseramente, anche se c'è da concedergli qualche attenuante. Diaz iniziò la sua opera in emergenza, ma fu in grado di gestire la stabilizzazione del fronte dopo la ritirata grande. Non fu meno duro nel reprimere la reticenza (ci sono studi chiari in tal senso), ma si rese conto che i soldati non potevano essere corpi estranei rispetto alla società. Gli uomini vennero forse considerati più come tali, e meno come materiale umano utile alla guerra. Forse in questo sussiste una delle grandi differenze tra i due.
D. Tra gli alti ufficiali italiani del primo conflitto mondiale, emergerà anche uno dei protagonisti della storia successiva: Pietro Badoglio. Puoi dirci qualcosa di più della sua azione nel corso del conflitto?
R. Pietro Badoglio e la sua carriera nel corso della prima guerra mondiale sono state oggetto di analisi e studi. Di certo Badoglio fu, almeno nella prima parte della guerra, un ufficiale brillante, capace di tre promozioni per merito nel giro di pochissimo tempo. Fu uno degli artefici, insieme al generale Venturi, della conquista del Sabotino, una vera impresa, determinante per la conquista di Gorizia. Su Caporetto, invece, paiono evidenti anche le sue responsabilità, che vennero poi misteriosamente stralciate dalla relazione finale della commissione d’inchiesta. Badoglio, anzi, diventerà con Diaz, sottocapo di stato maggiore. Il numero due dell’esercito insomma. Si maligna che in questo fu determinante l’appoggio della massoneria, cui Badoglio era affiliato. Potrebbe anche essere, ma di certo la carriera del generale non si fermò con la prima guerra mondiale, anzi. E sappiamo bene quali saranno le tappe successive.
D. Per chiudere, quanto diversa era la classe degli alti ufficiali italiana da quella delle principali potenze europee?
Nel dibattito storiografico internazionale vedo grandi critiche generalizzate rispetto all'azione e ai comportamenti degli alti ufficiali dei diversi eserciti, imputati in particolare di non aver saputo prevedere il tipo di guerra moderna e di adattarne le tattiche. In Italia i primi anni del novecento furono molto fervidi dal punto di vista del dibattito sul ruolo degli ufficiali, con prese di posizione forti sui progetti di legge che intendevano modificare il sistema di avanzamenti delle carriere. Quindi non è che la riflessione sia mancata, ma forse era un pò slegata dalla realtà e dalle effettive esigenze di efficienza dell'esercito. Ma d'altrone il giovane esercito nazionale passò molte traversie dalla sua nascita e si cercò anche di costruire una classe di ufficiali adeguata ai tempi, come dimostra, ad esempio, la costituzione della la scuola di guerra di Torino, modellata sul tipo delle accademie prussiane. Complessivamente ritengo che la classe degli alti ufficiali italiani non fu peggiore di altre. Ma da sempre basta un qualche esempio negativo per offuscare anche il grande impegno di diversi ottimi generali. Credo tuttavia che non sia troppo tardi per ristabilire una verità o una chiarezza storica, e gli anni del centenario potrebbero essere preziosi anche per questo.
Indicazione per citazione bibliografica
L. Raito – C. Zanirato, L’esempio dei capi. I generali italiani nella grande guerra 1915-18, in “Guerre e società contemporanee”, Rivista Online di Storia Contemporanea, Agosto 2015 (sezione spilli).
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