Guerre e Societa' Contemporanee
Guerre e Societa' Contemporanee

Biblio

Biblio è la sezione riservata agli approdonfimenti bibliografici. Ospita recensioni, dibattiti, rassegne bibliografiche relative ad argomenti d'interesse della nostra disciplina. E' una sezione preziosa, che aiuta a orientarsi nel mondo delle pubblicazioni e dell'editoria maggiore e minore. 

   

    Il Giolitti controverso di Salvadori

 

     Recensione a M. L. Salvadori, Giolitti un leader controverso, Roma, Donzelli, 2020. 

 

     A Giolitti sono state dedicate, nel tempo, biografie e monografie che ne hanno analizzato azioni e pensiero. Opere come quelle di Nino Valeri[1], Sergio Romano[2], Aldo Alessandro Mola[3], hanno avuto l’indubbio merito di tratteggiare in modo documentato e attento le vicende del principale uomo di governo italiano fino all’avvento di Mussolini. Il deus ex machina della politica nazionale per un quarto di secolo tra fine ottocento e primi del novecento, ha chiaramente catalizzato, nel corso della sua azione, critiche feroci e attestati di stima, e la sua figura, pertanto, si è caratterizzata come quella di un leader centrale, importante, ma controverso. 

     Proprio a quest’idea viene dedicato il bel volume di Massimo L. Salvadori, Giolitti un leader controverso, edito da Donzelli. Un volume che prova a fornire un’idea originale di rilettura di Giolitti e del giolittismo, partendo da un assunto già esplicitato in premessa dall’autore: «il “problema Giolitti” può essere sintetizzato nel fatto che egli trasmise ai suoi contemporanei e in seguito agli storici immagini decisamente divergenti in relazione all’interrogativo: fu la sua opera un raro esempio di “buongoverno” o di “malgoverno”; fu Giolitti un grande e benefico statista per l’Italia che evocava per le sue benemerenze quelle di Cavour oppure un artefice di trasformismo, di corruzione dello spirito pubblico, di manipolazione delle istituzioni parlamentari e di protezione degli interessi dell’evoluto Nord, investito da un trascinante decollo industriale, a scapito di quelli del Sud agrario, trascurato e condannato a restare in una condizione di degradante arretratezza politica, civile e sociale?»[4].

     Fedele all’idea che la storia racconta gli uomini per quello che sono ma li ricorda e descrive anche per come sono stati interpretati dai contemporanei, Salvadori inizia allora a esaminare le posizioni espresse da intellettuali e politici coevi allo statista del Dronero, con una sintesi essenziale e documentata che merita di essere esposta un po' più nel dettaglio, come faremo tra poco. 

     Innanzitutto, va contestualizzato un fatto fondamentale: l’Italia, sotto Giolitti, assistette a una fase di sviluppo industriale che non ha avuto pari nel primo mezzo secolo della nostra storia unitaria. Si trattò di uno slancio economico senza precedenti, ottenuto nonostante il sistema politico italiano fosse colpito da almeno due gravi mali endemici: da un lato la debolezza dei partiti politici e dall’altro una permanente ed elevata conflittualità sociale, che in alcuni momenti toccò punte di drammatica acutezza. Giolitti riuscì nell’impresa di guidare un paese nonostante maggioranze parlamentari fragili, coagulate intorno a un partito liberale che era tutto fuorchè un corpo sufficientemente omogeneo e un’opposizione altrettanto frammentata tra socialisti, popolari, nazionalisti emergenti. «Fu con questo multiforme schieramento, frammentato ma convergente nell’antigiolittismo, che lo statista piemontese si trovò a fare i conti nella sua azione di governo, dovendo prendere atto che il progresso economico e sociale del paese non si traduceva in quel grado di consenso che gli avrebbe reso la strada più agevole e produttiva. Giolitti fu indotto a reagire puntando ad assicurarsi con spregiudicatezza la maggioranza parlamentare ricorrendo in misura determinante al serbatoio di voti e all’appoggio dei parlamentari che potevano essergli forniti dai proprietari terrieri, dalla piccola borghesia dei professionisti e degli affaristi del Mezzogiorno»[5]. Alla critica di un feroce cinismo politico, Salvadori oppone invece l’idea che, l’azione di Giolitti, fosse improntata a un realismo capace di applicare azioni e strategie all’evolversi dei momenti. Ciò tuttavia, non può trascurarsi il fatto che il leader piemontese avesse cercato, fin dal momento del primo incarico da presidente del consiglio, nel 1903, di seguire una linea più coraggiosa rispetto a quella che fu in grado di fare, stante, a varie riprese, il rifiuto socialista di entrare nella compagine governativa. Fu lo scoppio della guerra, complici le pulsioni interventiste e le violenze di piazza, a mettere momentaneamente all’angolo Giolitti, che rientrò in sella per un fugace e infruttuoso tentativo nel sofferto dopoguerra, che ormai segnava la crisi intramontabile dello stato liberale. 

     Ma passiamo ora a evidenziare i giudizi dei contemporanei. Salvadori si sofferma, in primis, sullo “storico nemico” Salvemini. Lo storico di Molfetta contrastò Giolitti in vita e dopo la morte, additandolo come il massimo responsabile della “mala vita” che avvelenava la società politica e civile nel Mezzogiorno. Nel corso della sua vita da antigiolittiano, pur riconoscendo allo statista delle doti non comuni, Salvemini etichettò Giolitti con epiteti pesantissimi: «dittatore», «cinico ribaldo», «boss d’Italia», «figura porca», «ministro della mala vita», «manutengolo del fascismo», «Giovanni Battista di Mussolini»[6]. Si tratta di critiche molto pesanti che tuttavia Salvemini riconduceva a tre elementi fondamentali: la politica di Giolitti verso il Mezzogiorno, l’opposizione nei confronti della guerra e l’atteggiamento tenuto di fronte al fascismo. Per cogliere fino in fondo la portata culturale dell’avversione di Salvemini bisogna tuttavia esaminare le condizioni in cui si trovava il Mezzogiorno, e l’analisi socialista della situazione. Le terre del meridione infatti erano vittime almeno di una triplice oppressione: la gabbia imposta dallo Stato accentratore; il peso esercitato dalla struttura semifeudale che caratterizzava la società agraria fortemente arretrata; un’economia orientata in senso fortemente protezionista che privilegiava gli interessi del Nord. Influenzati dal pensiero di Salvemini furono anche Gobetti e Dorso, mentre tra i meridionalisti, dopo una prima fase di apprezzamento, passò a posizioni di dura critica anche Giustino Fortunato.

     Tra gli oppositori liberisti, invece, Luigi Einaudi e Luigi Albertini furono accomunati da forti critiche nei confronti di Giolitti per la convinzione  «che egli fosse un inveterato statalista e che il suo liberalismo politico fosse inquinato da una politica economica volta a limitare e a contrastare le leggi del libero mercato e i legittimi interessi dei privati che in essi operavano»[7]. Giolitti veniva pertanto considerato uno statalista interventista, pronto a imporre monopoli pubblici in nome di un supposto interesse generale, a salvaguardare i particolari interessi di industriali ed agrari con un protezionismo spinto che arrecava danno alla libera intraprendenza e alla massa dei consumatori.

     Alla schiera dei più fieri e duri oppositori di Giolitti va ascritto anche Sturzo, che indicò sempre nello statista piemontese una figura priva di morale, di scrupoli e di idealità. «Un elemento demoralizzatore di tutta la vita pubblica, inquinata interamente dal tornacontismo parlamentare», che guidava «un governo di opportunismi, sia nel campo finanziario che in quello sociale», il quale mostrava da un lato «condiscendenza politica verso gli elementi sovversivi» e dall’altro sosteneva «la necessità di tutela dell’ordine pubblico, che arriva alla reazione»[8]. In sostanza uno spregiudicato e abilissimo doppiogiochista, che tentava, barcamenandosi, di tirare avanti finchè poteva. Tra le posizioni più critiche, infine, vanno annoverate anche quelle dei nazionalisti, che in Giolitti vedevano un mandatario dei socialisti e un traditore della nazione.  

     Lo scontro tra giolittiani e antigiolittiani permeò anche la storiografia del secondo dopoguerra anche se a partire dagli anni settanta, lavori come quelli di Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Franco Gaeta, Rosario Romeo e Luciano Cafagna, Alberto Aquarone (ma altri non vanno trascurati) hanno avuto l’indubbio merito di contestualizzare nell’evoluzione della storia politica del nostro paese l’azione e il pensiero di Giolitti. Tra le opere più importanti ed evolute va sottolineato il lavoro di Emilio Gentile[9] capace di un’attenta analisi dei fattori dell’antigiolittismo, riconducibili (mi si scuserà la semplificazione) a una chiara e sostanziale impotenza politica, da parte dei suoi oppositori, che ne sopravvalutarono la potenza, arrivando a demonizzarla. Giolitti seppe dare un impulso al rinnovamento di un parlamentarismo ingessato, e la sua opera va considerata per quello che è, ovvero un momento della grande evoluzione del sistema politico italiano.

     Quello di Salvadori è senza dubbio un libro ben scritto ed equilibrato, capace anche di tracciare un bilancio storiografico rispetto a una figura centrale e fondamentale della nostra storia nazionale. Una monografia di alto valore scientifico che riafferma le doti di uno storico tra i più importanti del panorama italiano e ci restituisce un’immagine dinamica e affascinante del politico e dello statista Giolitti. Una nuova indubbia intuizione di Donzelli editore, tra i più capaci, negli ultimi anni, di proporre una saggistica di pregio e seriamente meditata.   

 

[1] N. Valeri, Giolitti, Torino, Utet, 1978.

[2] S. Romano, Giolitti. Lo stile del potere, Milano, Bompiani, 1989.

[3] A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Milano, Mondadori, 2003. 

[4] M. L. Salvadori, Giolitti un leader controverso, Roma, Donzelli, 2020, pp. VIII-IX.  

[5] M. L. Salvadori, Op. cit., pp. 9-10. 

[6] M. L. Salvadori, Op. cit., p. 83.

[7] M. L. Salvadori, Op. cit., p. 107.

[8] M. L. Salvadori, Op. cit., p. 121. 

[9] E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Roma-Bari, Laterza, 2011.

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La Padova del sindaco Crescente

 

Leonardo Raito

 

Ho letto con grande piacere e apprezzato decisamente il volume di Giaretta e Iori intitolato La Padova del sindaco Crescente, uscito pochi mesi fa per il Poligrafo. Il libro, bello e documentato, racconta gli oltre vent’anni dell’avvocato Cesarino Crescente alla guida della città del Santo, in rappresentanza della Democrazia Cristiana che si strutturava in Veneto come partito di riferimento e di governo a livello locale e nazionale. Crescente, stimato anche dalle opposizioni, ebbe il merito, prima di favorire un progetto di ripresa e di ricostruzione dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, affrontando le molteplici problematiche sociali della città, e cercando di ipotizzare e assecondare scenari di sviluppo anche economico. Nonostante il non sempre agevole cammino politico (non mancarono contrasti tra i partiti della maggioranza e all’interno della stessa Dc), Crescente seppe contraddistinguersi come il sindaco di tutti. Seppe inoltre cogliere, prima di altri, l’importanza dello sviluppo del comparto universitario, anticipatore dell’università di massa che avrebbe contraddistinto il post ’68 e cercò, pur tuttavia non ottenendo sempre i risultati sperati, di armonizzare alle esigenze di una città in espansione lo sviluppo urbanistico, con scelte anche delicate, come la copertura del naviglio interno del Bacchiglione, che suscitarono polemiche e contrasti. Nel volume di Giaretta e Iori, che utilizzano copiosamente fonti primarie come i resoconti delle sedute di giunta e di consiglio comunale o la stampa provinciale dei partiti politici, si legge con chiarezza l’impianto che ha contraddistinto la crescita di una città che non ha saputo, secondo le speranze, diventare il motore autentico del Nord Est, ma che ha comunque preservato una sua funzione guida, almeno a livello regionale. Non posso pertanto che promuovere pienamente una pubblicazione che ha l’indubbio merito di farci conoscere, più in profondità, tanti perché di questa splendida città e della sua storia recente.

 

Indicazione per citazione bibliografica

 

L. Raito, La Padova del sindaco Crescente, in “Guerre e società contemporanee”, 27 settembre 2015.

 

Quel compagno del secolo scorso

 

Leonardo Raito

 

 

Capita spesso che le autobiografie dei dirigenti politici scadano in tentativi di riflessione e memorie che sfociano in autoassoluzione. Si giustificano scelte, magari sbagliate o dagli esiti negativi, con la storia, il momento, la congiuntura, non lasciando trasparire l’asprezza che talvolta contraddistingue dibattiti e scontri interni ai partiti della prima repubblica. Fortunatamente Gianni Cervetti, con il suo Compagno del secolo scorso. Una storia politica edito da Bompiani, non cade nel rischio e regala ai lettori una riflessione autentica, meditata, su un percorso politico fatto con serietà e impegno, ma che non ha mancato di infondere all’autore amarezze in alcuni passaggi cardine della storia del Pci e delle sue successive trasformazioni. Il partito che ci racconta Cervetti era, come ha giustamente scritto Paolo Franchi nella prefazione al volume, «una comunità vasta e complessa la cui caratteristica più affascinante e meno spiegata, forse, era che al suo interno, spesso detestandosi, ma tenendo a bada i propri rancori, riuscivano a convivere e a collaborare, dai vertici all’ultimo raggruppamento periferico, persone che sotto qualsiasi altro cielo, non avrebbero fatto insieme neanche quattro chiacchiere al caffè senza dirsene di tutti i colori, e magari venire alle mani». Un partito all’apparenza coeso, e che dietro la formula del centralismo democratico riusciva a costruire una compattezza di posizioni, ma che però non si privava (anche se magari ne avrebbe fatto a meno) di un dibattito interno dai toni anche duri. Questo aspetto, forse trascurato in molti studi sul Pci, in realtà ha rappresentato, anche per Cervetti, uno degli elementi cardine di un tentativo riformatore interno del partito, portati avanti da un gruppo di dirigenti che non hanno però mai saputo recitare fino in fondo la propria azione trasformatrice. Per condizioni oggettive, per scarso coraggio, per volontà di non scardinare quel senso di comunità? Forse non lo sapremo mai. Cervetti fu comunque uno dei grandi protagonisti della vita di questo partito. Giovane di belle speranze, fu uomo su cui il partito investì, inviandolo a Mosca a studiare economia per poter tornare poi a svolgere la sua funzione di dirigente preparato e in grado di svolgere un compito quasi messianico di organizzazione e guida della classe operaia italiana. L’esperienza moscovita fu, per il giovane milanese, preziosa, per approfondire conoscenze su un “mondo” e i suoi uomini, per scoprirne i limiti, per cogliere sfaccettature e caratteri dei suoi protagonisti, alcuni dei quali (come Gorbaciov) divennero poi amici dell’autore.

Dirigente giovanile, poi comunale, provinciale e regionale, con un percorso non dissimile da molti protagonisti di un cursus honorum di cui oggi si sente pesantemente la mancanza, Cervetti entrò nella segreteria nazionale del partito guidato da Berlinguer, nel 1975, dopo il XIV congresso. Fu rappresentante di una nuova leva di dirigenti chiamati a guidare una stagione fervida di proposte e di un riaffermato ruolo centrale del Pci sullo scenario nazionale e internazionale: le proposte del compromesso storico, dell’eurocomunismo, i governi di solidarietà nazionali, la tragedia del terrorismo appartengono a quegli anni. Di fronte all’attivismo e al protagonismo programmatico del Pci, di cui Cervetti fu protagonista, l’autore registra però, con rammarico, le opposizioni interne che impedirono il pieno dispiegarsi delle prospettive avviate. Ad opporsi al compromesso storico, ad esempio, furono i cattocomunisti, tra cui il segretario di Berlinguer, Antonio Tatò, che concepirono la strategia come una formula per isolare il Psi, anziché per costruire una sponda a una prospettiva unitaria delle sinistre e il gruppo di Cossutta che con Tatò e soci stabilì accordi in chiave di posizioni di politica internazionale e di volontà di isolare la cosiddetta destra del partito (che guardava al socialismo europeo e al rapporto con il Psi). E una stagione fiorente restò solo ai germogli. C’è poi tutta la stagione dell’europeismo, con Cervetti protagonista anche in virtù del proprio incarico di parlamentare europeo; una stagione tutta da rileggere per cogliere le trasformazioni del Pci nel tentativo di avvicinamento alle famiglie delle sinistre europee; per evidenziare rapporti non sempre idilliaci e semplici con gli indipendenti eletti nelle liste del Pci.

Cervetti fu rappresentante dell’area riformista (o migliorista) del partito, di quei destri spesso attacco dei dirigenti più legati alla tradizione. Fu legatissimo a Napolitano, Macaluso, Chiaromonte, uomini attenti anche alle trasformazioni dettate dal superamento del sistema dei due blocchi dopo la caduta del muro di Berlino. Riflettendo su questa ultima stagione, che porterà poi al crollo della prima repubblica, a tangentopoli (le cui vicende, fortunatamente conclusesi con l’assoluzione) colpirono anche l’autore, Cervetti non nasconderà una certa amarezza. Dopo la defenestrazione di Natta, del patto del garage tra Occhetto e D’Alema, non ci fu solo il superamento di una classe dirigente, ma anche di un metodo di gestione dei rapporti che, pur nella durezza, non trascendeva un certo stile, certi convenevoli. Ma la stagione del Pds e dei Ds aprirono prospettive nuove anche per l’ala riformista, la cui marginalizzazione non poteva impedire l’emergere della giustezza di una lunga elaborazione teorica.

In conclusione, ritengo che questo volume rappresenti un tassello fondamentale per la ricostruzione di un mosaico complesso, ma che da oggi può emergere con una chiarezza maggiore. Chi vorrà confrontarsi seriamente con una stagione i cui riflessi possono cominciare a considerarsi discretamente oggi, in sede storiografica, non potrà esimersi da una lettura piacevole e affascinante.      

  

 

Indicazione per citazione bibliografica

 

L. Raito, Un compagno del secolo scorso, in “Guerre e società contemporanee”, n. 1, settembre 2015.

 

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