Introduzione: le microstorie come un valore
La storiografia contemporaneistica italiana ha spesso trascurato le microstorie. Gli ambiti accademici le hanno confinate, quasi spregiativamente, nei ristretti confini della storia locale, considerando il raggio d’azione dell’analisi microstorica a dei livelli limitati, mai tali da conferire maturità o scientificità agli studiosi e ai ricercatori che vi si sono dedicati. Ma se le ricerche microstoriche non paiono (chissà per quanto ancora) adatte alla vincita di un concorso universitario o a un’abilitazione scientifica nazionale, non altrettanto si può dire della loro valenza, che in realtà, e lo hanno ben dimostrato studi qualificati, aprono un quadro di stimoli nuovi, di indagini profonde che offrono interpretazioni valide anche per contesti più ampi. Recensendo un bel libro di uno dei padri della microstoria, Carlo Ginzburg[1], Angelo D’Orsi scrive:
[…] Fra i tanti insegnamenti, un altro vorrei porre in luce, che delinea bene la fisionomia dello studioso di “microstoria” (tra i pochi saggi noti del volume, c’è il bellissimo “Microstoria: due o tre cose che so di lei”, del 1994): l’idea che per comprendere una società sia più utile partire dalle sue manifestazioni anomale, piuttosto che dalla norma: "la violazione della norma contiene in sé anche la norma"; mentre l’inverso non è vero. Purché questo studio sia fatto in modo intensivo. Il che è un po’ la filosofia della microstoria, piccola non solo in quanto sono limitati, temporalmente o spazialmente gli oggetti della sua indagine, ma soprattutto perché attraverso la tecnica della descrizione densa, che va in profondità, comprendendo un caso particolare abbiamo elementi per intuire il quadro complessivo[2].
Questo breve articolo deriva da un’occasione capitatami pochi anni fa. Ho avuto il piacere e l’onore di essere invitato dalla direzione della Casa di Cura Madonna della Salute di Porto Viro a portare un contributo ad un convegno per il sessantesimo anniversario della struttura, fondata nel 1955 per merito del dottor Quadretti, un pioniere della medicina e della ospedalizzazione: coraggioso medico che si era reso conto di quanto fosse importante il rafforzamento dei servizi sanitari in una zona depressa come il delta del Po di allora. Mi è stato chiesto di svolgere un breve intervento sulle condizioni socioeconomiche del Polesine dal dopoguerra agli anni sessanta e ho provato partendo da una microstoria che mi tocca da vicino. Userò quelle note per spiegare come una microstoria possa, in realtà, prestarsi per lettura più ampie in chiave di storia politica, sociale, economica e del lavoro.
1. Da una microstoria alle condizioni socioeconomiche del Polesine del dopoguerra
Molto spesso noi contemporaneisti siamo abituati a ragionare in termini di macrostorie, a considerare periodi ed ere storiche dimenticando il valore delle memorie individuali, o di microstorie che contribuiscono a ricostruire contesti ed eventi. Allo stato attuale, ci portano lontani dalle indagini microstoriche anche i più ampi ragionamenti connessi alla “storia globale”, una disciplina che si sta facendo largo nel mondo accademico, come disciplina dinamica, innovativa, capace di leggere i fenomeni contemporanei non più con le categorie storiografiche dei secoli passati, sorpassate forse, ma con strumenti moderni concessi anche dalla comprensione e dall’interpretazione di un fenomeno come la globalizzazione[3].
Ma non sono le teorie accademiche ad appassionarmi. E intenderei tornare sul tema della microstoria di interesse, partendo proprio da quel 1955 in cui viene fondata la casa di cura di Contarina, proponendo una riflessione che magari a tanti dirà poco, ma che potrebbe aiutarci a capire di più il contesto polesano. Nel 1955 nasce a Porto Tolle un bambino, Massimo Raito, che è mio padre. Massimo è figlio di Ivan, uno zuccheriere avventizio, oggi diremmo precario, che nel 1951, pochi mesi prima della tragica alluvione del Polesine, era stato chiamato a lavorare allo zuccherificio di Cà Venier, e si era stabilito con la famiglia, la moglie e quattro figli, in un casone di canne. A Porto Tolle nacquero altri due figli, Chiara e Massimo, prima che nel 1956, guarda caso pochi mesi prima di una nuova alluvione che inondò proprio il territorio portotollese, la famiglia si trasferisse a Ferrara, dove Ivan prese servizio nello zuccherificio di Mizzana. Ho raccontato questa storia che racchiude nella sua semplicità l’esistenza di chissà quanti polesani di allora: le problematiche del lavoro, le condizioni di vita, il rapporto conflittuale con l’ambiente.
Siamo in un territorio che pagò un dazio pesante alle costanti alluvioni, quella del 1951 e non solo. Dino Campion sindaco comunista di Porto Tolle, nel 1966 disse al presidente del consiglio Aldo Moro che gli chiedeva da quanto tempo fosse sindaco che rivestiva tale carica da sedici alluvioni. Il fiume e il mare invadevano spesso le terre polesane protette da argini fragili sui quali non era chiara nemmeno la giurisdizione. Chi doveva occuparsi delle manutenzioni? Chi rinforzarli? In anni di incertezza, la natura faceva il suo corso e strappava alla fatica dei lavoratori terre coltivate con sudore, rovinando raccolti e riducendo alla fame le tante famiglie dei braccianti, salariati impiegati per poche settimane l’anno e che a fatica avevano di che sfamare mogli, figli, parenti.
Ma siamo anche un territorio dove le condizioni socio sanitarie erano rese difficili da un’amministrazione carente, dalla scarsa igiene delle case, da paludi e acquitrini che rendevano inevitabile la convivenza con la malaria. Strade, scuole, collegamenti: mancava tutto in una terra che aveva bisogno, come avevano detto molti politici nazionali (Togliatti, Di Vittorio e altri visitarono a più riprese il delta) di redenzione e riscatto. I politici e in sindacalisti di allora (nell’area del Delta, non a caso, ci fu una preponderanza di amministrazioni rosse) furono chiamati gli organizzatori della speranza, gli apostoli di un riscatto difficile da condurre. Non c’era pane, non c’era lavoro, non c’erano strade e scuole in quell’area quasi dimenticata del Polesine. Ma in quella peculiarità possono essere riassunti tanti dei grandi temi politici di allora: la lotta al latifondo, la difesa della terra dalle inondazioni, la necessità di piani di edilizia popolare, la lotta alle malattie. Il delta del Po e il Polesine divennero aree di sperimentazione di lotta, di scioperi selvaggi ma inevitabili, aree di masse trascinate da capipopolo: Severino Bolognesi, Severino Cavazzini, Luigi Gaiani, Dino Campion, Mimì Sangiorgio, gente che si fece interprete di esigenze disperate di famiglie di disperati. Quanti anni, quanta fatica, quante lotte per raggiungere condizioni almeno accettabili. Quanta sofferenza. E’ impossibile spiegare la nostra storia, la storia più grande, tralasciando questi aspetti non più trascurabili. E’ forse giunto il momento che anche la storia contemporanea faccia i conti con la sua miriade di microstorie.
2. La questione del lavoro
Come detto, Ivan era uno zuccheriere avventizio. Nato nel 1913 da una relazione clandestina, prese il cognome della madre, Irene Santa, donna nata in una famiglia che abbracciò presto il comunismo. Ivan fece il servizio militare e si sposò. Poi combatté, nella seconda guerra mondiale, in Slovenia, in un reparto di bersaglieri della Divisione "Re" di stanza a Lubiana. Dell’esperienza in Jugoslavia ricordava ai famigliari alcune cose: che sotto il francobollo aveva scritto alla moglie “Cara Lubiana” per far capire dove si trovava, che gli jugoslavi erano strani, quasi divisi in tribù tanto che nella stessa strada potevi trovare chi ti dava da mangiare e chi ti sparava, e che nel mare una volta aveva visto un delfino. Finita la guerra riprese a lavorare nello zuccherificio del paese, ma, come detto, da precario. Nonostante fosse un operaio specializzato e, a quanto pare, molto bravo, la direzione dello stabilimento gli addebitava il fatto di essere troppo “rosso”.
Iniziò allora un lungo pellegrinaggio tra stabilimenti diversi, la cui prima tappa fu, appunto Cà Venier, frazione di Porto Tolle. Vi giunse pochi mesi prima della grande alluvione del Polesine e se ne andò prima della grande alluvione dell'isola. A Porto Tolle visse dapprincipio nei casoni di canne, tanto famosi quanto vituperati, poi nelle prime case popolari a Cà Tiepolo, che lo videro, in quanto occupante di una abitazione insalubre, tra gli assegnatari. Il riscatto delle condizioni di vita nel Delta Padano fu una delle principali occupazioni dei comunisti polesani, che godettero, fino agli anni sessanta, di un consenso quasi incontrastato nell’area. Poi la riforma agraria e lo svuotamento della provincia seguito alla grande alluvione del 1951, con oltre 100.000 polesani emigrati nelle regioni più ricche dell’ovest, cambiò anche la geografia del voto.
Ivan Raito e la sua famiglia si spostarono prima a Ferrara, per lavorare nello zuccherificio di Mizzana, poi ancora a Polesella. Ma la sua storia, insieme a quella della sua famiglia, pare emblematica di tutti gli aspetti sociali, politici, di lavoro, che una piccola microstoria può portare con se. Forse è ora che, noi storici, teniamo in debita considerazione questa straordinaria miniera di informazioni e stimoli alla ricerca.
PER CITARE QUESTO ARTICOLO
L. Raito, Microstorie di microgeneri. Un valore aggiunto per la storiografia contemporaneistica?, Guerre e Società Contemporanee, aprile 2020
[1] C. GINZBURG, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2006.
[2] A. D’ORSI, Carlo Ginzburg. Uno storico che sa fare le domande, in «Liberazione», 9 settembre 2006.
[3] Tra i libri che cercano con maggior incisività di spiegare la “storia globale” e di difenderne strumenti e obiettivi, c’è S. CONRAD, What is global history?, Princeton, Princeton University Press, 2016.