Summary
In una stagione tragica come quella degli anni di piombo, quanto può contare un attentato come quello al carcere di Rovigo del 3 gennaio 1982? Si potrebbe dire nulla, lo si potrebbe considerare una piccola puntura di spillo nel contesto di una guerra aperta che contrapponeva i gruppi del terrore allo stato e ai suoi apparati. In realtà, se una puntura di spillo giunge proprio al cuore delle istituzioni, quella puntura diventa una trafittura profonda. Quell’azione dei Colp, quell’autobomba che fece saltare il muro del carcere in centro città, favorendo l’evasione delle quattro detenute e provocando la morte di un passante, mostrò come le istituzioni fossero vulnerabili e come, forse, gli apparati statali, in primis quello carcerario, non fossero stati predisposti e tarati per vincere la sfida ai gruppi della lotta armata. Sull’obsolescenza, lo scarso presidio, l’infelice collocazione del carcere rodigino, tutti sapevano tutto. Lo sapevano bene anche i terroristi che scelsero, non a caso, di colpire lì, dove le povere guardie carcerarie non potevano difendersi da un concentramento di fuoco ben difeso dalle mura dei palazzi. Colpirono lì, in un pomeriggio di domenica, quando gran parte delle forze di polizia erano a tutelare l’ordine pubblico a due importanti eventi politici. I terroristi dimostrarono che non era un’istituzione carceraria a poterli fermare e che non c’era Stato o forza di polizia in grado di arginarli. L’opinione pubblica si confrontò a lungo sul senso di quell’evasione organizzata: ci furono dichiarazioni forti da parte di politici e opinionisti in vista. Pertini disse che la sorveglianza in realtà non esisteva, e che anche Curcio (lo spaventevole leader delle Br) sarebbe riuscito a scappare. Nelle varie analisi rifulse la lucidità di un giornalista de L’Unità, Ibio Paolucci, che seppe ricostruire con grande attenzione, in modo documentato, tutto ciò che concerneva la galassia degli ex Prima Linea. Quel giornalismo, quasi “scientifico”, seppe contribuire alla conoscenza di un fenomeno che, nel tempo, lo stato seppe sconfiggere. Ma quel giorno, a Rovigo, con l’evasione delle quattro terroriste sembrò vacillare il castello di carte su cui si basava la sicurezza degli italiani e la sopravvivenza stessa della nostra democrazia.
1. L’attentato di Rovigo: una tragedia possibile
Una tragedia possibile, preventivabile, come tante delle storie che hanno costellato gli anni di piombo in Italia. Ecco come possiamo descrivere l’attentato al carcere di Rovigo del 3 gennaio 1982, quando un commando composto da elementi di Prima Linea e dei Comunisti Organizzati di Liberazione Proletaria (Colp) organizzò un assalto in pieno giorno finalizzato all’evasione di alcune detenute. Rovigo perché? In quel contesto le contingenze fecero la differenza. Si chiesero in molti perché alcune pericolose terroriste dovevano essere collocate proprio in un carcere così obsoleto e sito in posizione infelice, in centro città, tra case, palazzi e strade anguste che potevano rappresentare vie di fuga nascoste e, come fu, riparate dal tiro delle guardie. Di certo ci fu la sottovalutazione del rischio e non furono adottate le contromisure adeguate per garantire la sicurezza della struttura di detenzione. E quanto poteva essere preventivabile successe, con tanto di vittime innocenti, incolpevoli, il cui unico torto fu quello di trovarsi lì, a due passi dall’esplosione dell’autobomba utilizzata per provocare il buco nel muro di cinta. L’attentato di Rovigo fu quello che fece dire al presidente della repubblica Sandro Pertini che «la verità è che non esiste sorveglianza. Vedrete, ora scapperà anche Curcio»[1], sollevando polemiche sul sistema di sorveglianza dei detenuti. Il presidente, in quella che pare una autentica invettiva (secondo uno stile “interventista” consolidato[2]), chiamò in causa anche ipotetici collegamenti internazionali del terrorismo, un aspetto che approfondiremo in seguito. Cominciamo ora a descrivere gli eventi, esordendo dalle tracce di una storia parte da lontano, dagli anni del terrorismo che stavano insanguinando l’Italia, e da un Veneto che fu al centro del fenomeno terroristico negli anni settanta e ottanta. Proprio da qui dobbiamo partire, se vogliamo raccontare questa vicenda. Dobbiamo partire da una Padova dove uno stimato professore di storia contemporanea, Angelo Ventura, ebbe il coraggio di sfidare le contestazioni studentesche, di mettersi di traverso per rispetto del ruolo di un’istituzione, l’università, che non poteva essere considerata terra di conquista. Fu tra i firmatari di un documento a sostegno del magistrato Pietro Calogero, che stava indagando sugli ambienti dell’autonomia. Ventura si oppose ai terroristi e fu gambizzato, il 26 settembre 1979[3]. Riuscì a reagire sparando e non si arrese, anzi. Perspicace come pochi, raccolse informazioni, documenti, e cercò di studiare il fenomeno terrorismo consegnandoci alcune delle chiavi di lettura più fondamentali per capire la galassia di movimenti che costellò gli anni di piombo[4]. In Veneto, ad esempio, si era sviluppata un’ideologia operaista che faceva capo ad alcuni movimenti, in primis a Potere Operaio, fondato da un professore universitario di Teoria dello Stato, Toni Negri, che insegnava e faceva proseliti alla facoltà di scienze politiche a Padova. Anche la galassia del terrorismo rivoluzionario, tuttavia, non si presentava come un movimento monolitico. A differenza, ad esempio, di una certa ideologia terzomondista, interpretata da una personalità del calibro di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore fondatore dei Gap, con esplicito richiamo ai gruppi d’azione patriottica comunisti, operanti nella guerra di liberazione, Potere Operaio sosteneva l’idea di combattere un capitalismo incarnato dallo stato delle multinazionali e dai suoi elementi. Feltrinelli però era stato determinante per le origini del terrorismo italiano ed europeo. Fu infatti il primo, in Italia a concepire la necessità della lotta armata nella prospettiva di una strategia globale comunista e antimperialista, creando una base strategica che resterà ossessivamente in tutto il percorso del partito della lotta armata, ovvero l’idea che la lotta di classe si stabilizzi come guerra di classe permanente, importando nelle grandi metropoli industriali d’Europa la lotta dei popoli del terzo mondo[5]. La genesi del partito della lotta armata va ricercata nei contraccolpi seguiti alle grandi lotte operaia del 1969, quando la vittoria della linea contrattuale aprì una fase di forte ripresa dei sindacati che isolò gruppi estremistici come Potere Operaio e Lotta Continua, formati in larga parte da intellettuali e studenti di estrazione borghese, che nelle agitazioni operaie avevano ritenuto di trovare conferma della grande occasione storica rivoluzionaria teorizzata negli anni sessanta[6].
La stagione del terrorismo rosso in Italia era cominciata tra il 1974 e il 1975 in contemporanea con la grande avanzata elettorale del Pci che sembrava, per la prima volta nella storia repubblicana, vicino ad acquisire responsabilità di governo. Si trattò di un’evenienza guardata con preoccupazione da più parti. Di certo, in una chiave di politica internazionale, lo spostamento dell’asse di governo verso una formazione che si richiamava a valori e dogmi estranei ai paesi occidentali, preoccupava gli americani e gli alleati europei. Dall’altra, un Pci al governo avrebbe rappresentato, in una logica di normalizzazione democratica, un pericoloso ostacolo alla rivoluzione. Ed ecco che il terrorismo, in una duplice chiave nazionale e internazionale, dispiegò a pieno le sue strategie violente. Iniziò una lunga scia di rapine, rapimenti, gambizzazioni, omicidi, destinata a segnare la politica interna del nostro paese. In quegli anni, si registrarono alcune aree calde nella geografia della violenza. Insieme a Milano, Torino, Genova (le grandi città industriali), Roma e Napoli (le metropoli meridionali), il Veneto, che aveva imboccato la via dello sviluppo, diventava epicentro dell’elaborazione di una strategia di lotta violenta. Era soprattutto Padova, con la presenza di Toni Negri e il suo proselitismo ai giovani universitari, a farla da padrone. Negli ultimi anni, sono stati prodotti diversi studi sul terrorismo che tengono in debita considerazione la stagione del terrorismo in Veneto, e sono una buona base di partenza per il nostro lavoro[7]. Ma muoviamoci con ordine. In una nota riservata della Prefettura di Padova, indirizzata al Ministero dell’Interno, del 7 settembre 1974, si affermava:
è stata di recente costituita in Padova una redazione di ‘Controinformazione’, periodico edito a Milano dal movimento extraparlamentare di sinistra Potere Operaio. L’iniziativa, nei locali ambienti, viene da taluno collegata con l’intenzione del direttore del periodico, Emilio Vesce, indicato come esponente delle Brigate Rosse, di trasferire dal Piemonte e dalla Lombardia al Veneto le basi organizzative del noto gruppo clandestino[8].
Nonostante le informazioni, come sottolinea Carlo Fumian, i ritardi nel riconoscimento delle peculiarità del fenomeno padovano furono notevoli. Si sottovalutò la portata di quanto stava accadendo, o ci fu un silenzio consenziente? Solo nel luglio 1978 infatti, le forze di polizia si sentirono in dovere di stilare la relazione Note e documentazione sulla violenza politica a Padova, ricca di dati e di grafici, anche se forse stimolata da una serie di interventi politici e articoli di giornale sul caso padovano, tutti concordi nel sottolineare la scarsa attenzione al fenomeno della violenza e del terrorismo nella città del santo[9]. «Perché – si chiedeva l’estensore anonimo della Nota – si è sviluppata la violenza politica a Padova e come si è organizzata? L’ordine pubblico a Padova è un aspetto di un problema nazionale o costituisce un problema particolare, che rende necessari attenzioni e rimedi particolari?». Rievocando quegli anni, Virginio Rognoni, ministro dell’interno dal 1978, ricordò come Padova in quel periodo fosse fonte di grande preoccupazione come «centrale e luogo di magistero della violenza»[10]. Di lì a breve, collegata anche alla vicenda della Scuola di lingue parigina Hypérion, in realtà una centrale dell’eversione internazionale, scattò l’inchiesta del magistrato padovano Pietro Calogero sull’Autonomia operaia. Le indagini che, come detto, toccarono Hypérion, nel momento in cui passarono a Roma, furono bruciate dai servizi segreti che passarono informazioni alla stampa, inequivocabile testimonianza delle coperture di cui godettero i vertici dell’eversione italiana di sinistra[11]. Ma quali sono state le caratteristiche del terrorismo di sinistra in Italia? Ricorriamo ancora ad Angelo Ventura per coglierne i caratteri originali:
1) Coscienza teorica, in quanto il terrorismo è concepito come metodo normale e necessario di lotta, funzione organica d’una sorta di blocco teorico-pratico, forma specifica d’una strategia politico militare che rappresenta l’immediata determinazione di una ben definita concezione della società e della storia. 2) Carattere «strategico», nel senso che la pratica del terrore è assunta come forma principale di lotta. 3) Riferimento alle masse e alle istituzioni della società complessa della strategia terroristica: alle masse, per trascinarle nella lotta armata rivoluzionaria […]; alle istituzioni, per disgregare i corpi dello Stato e le strutture portanti della società civile. 4) Dimensione internazionale, che si manifesta sia nella prospettiva internazionalistica dei movimenti eversivi e nei collegamenti tra organizzazioni di diversi paesi, sia nell’uso del terrorismo da parte degli Stati, come strumento di politica estera.
Sono tratti che ritroveremo in varie rivendicazioni di attentati di quegli anni. Il Veneto, intanto, era uno dei punti culmine delle violenze. Il 29 gennaio 1980, a Mestre, venne ucciso Silvio Gori[12], vicedirettore della Montedison di Marghera. Pochi mesi più tardi, a maggio, a cadere sotto il fuoco della colonna veneta delle Br fu Alfredo Albanese[13], vicequestore aggiunto a Venezia e capo del reparto antiterrorismo della Digos veneziana, che proprio sull’omicidio Gori stava indagando. Nel luglio del 1981, a completamento della strategia violenta anticapitalista, che mirava a colpire le multinazionali come elementi di governo internazionale del sistema italiano, la colonna veneta delle Br pianificò ed eseguì l’omicidio dell’ingegner Giuseppe Taliercio[14], direttore del Petrolchimico di Marghera. Nei giorni in cui si consuma l’attentato al carcere di Rovigo, poi, la regione vive la drammatica fase del rapimento, conclusosi poi con la liberazione, del generale della Nato James Lee Dozier, sequestrato a Verona il 17 dicembre 1981.
2. Prima Linea.
Tra i gruppi del terrore si distinse la formazione di Prima Linea. Di questa si è detto che sia stata «la formazione terroristica più frigida e immatura ideologicamente ma anche la più spietata nel dispiegare quella che si chiama strategia omicidaria»[15]. Operativa dal 1976, Prima Linea fu propugnatrice di una strategia rivoluzionaria di rovesciamento del potere costituito, obiettivo comune anche con le Brigate Rosse, da cui, tuttavia, si distinse per una serie di caratteristiche. Prima Linea voleva mantenere un rapporto fluido con la società, ramificarsi nelle fabbriche e nelle periferie delle città, ricercare un dialogo con i movimenti spontanei. Maurice Bignami, Sergio Segio[16], Michele Viscardi, Roberto Solimano, Enrico Galmozzi, Susanna Ronconi, Roberto Sandalo, Bruno La Ronga, Fabrizio Giai, Marco Donat Cattin, Bruno Rosso Palombi e altri, saranno protagonisti di una lunga scia di assassinii. Colpirono l’11 ottobre 1978 a Napoli il criminologo Alfredo Paolella; poi uccisero il 19 marzo 1979 a Milano il giudice istruttore Guido Galli e il 21 settembre 1979 a Torino il dirigente Fiat Carlo Ghiglieno. Ma gli obiettivi non si fermeranno qui. Sempre Prima Linea fu protagonista di alcuni omicidi che provocarono disapprovazione e biasimo all’interno delle stesse organizzazioni terroristiche: il 29 gennaio 1979 morì sotto i colpi di un commando di fuoco il sostituto procuratore Emilio Alessandrini, che aveva indagato sulla strage di Piazza Fontana e messo sotto accusa gli agenti del Sid e dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno. A Torino poi, per rappresaglia contro la morte di Barbara Azzaroni e Matteo Caggegi, uccisi dalla polizia al Bar dell’Angelo, i terroristi prima ammazzarono un diciottenne che stava tornando da scuola e poi uccisero il proprietario dello stesso Bar dell’Angelo che ritenevano una spia. L’organizzazione andò in crisi nell’inverno 1980, quando venne arrestato Patrizio Peci, capo della colonna torinese delle Brigate Rosse, il primo dei pentiti, che raccontò al generale Dalla Chiesa tutto dell’organizzazione. Peci fece anche i nomi di membri di Prima Linea, tra cui Roberto Sandalo e Marco Donat Cattin, che iniziano, a loro volta, a collaborare. L’organizzazione soffrì, ma continua a operare con elementi in clandestinità, anche se quel 1980 rappresenta un anno di svolta per il terrorismo italiano, incalzato da una più efficace azione dello stato. Dalla Chiesa fu in grado di programmare alcune azioni spettacolari ma efficaci, come l’irruzione in Via Fracchia, a Genova, dove vennero uccisi quattro brigatisti. Nella tragica quotidianità italiana, ci furono giornalisti che provano un sospiro di sollievo a vedere uccisi criminali al posto di cittadini inermi e innocenti. Così, ad esempio, Eugenio Scalfari, su La Repubblica, il 30 marzo 1980:
L’uso selvaggio del terrore spegne nel cuore della gente ogni sentimento di pietà umana e cristiana […]. Contro questi guasti profondi occorre reagire. Occorre contrastare l’avversario non soltanto con la difesa armata […] ma non facendo spegnere nei nostri cuori il sentimento della pietà.
Tra le voci più convinte di dover professare un sentimento di necessaria pietà ci fu quella del figlio di Vittorio Bachelet, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, assassinato all’interno dell’università di Roma:
Preghiamo per i nostri governanti […], per i giudici, i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi, nelle diverse responsabilità, nella società, nel parlamento, continuano a combattere in prima fila per la democrazia con coraggio e amore. Ma preghiamo anche per coloro che hanno colpito mio papà, perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte per gli altri.
La Stanford University ha mappato con precisione tutti i gruppi terroristici operativi in Europa Occidentale nel corso del Novecento e ha dedicato un’apposita scheda anche a Prima Linea[17]:
Prima Linea è stato il secondo più grande gruppo terroristico di sinistra in Italia dopo le Brigate Rosse. È stato organizzato in modo vago, con una leadership nazionale di coordinamento e diverse cellule locali. Queste cellule hanno determinato azioni locali spesso in modo indipendente e hanno organizzato attacchi sotto una varietà di nomi, oltre a Prima Linea. PL ha cercato di rovesciare lo stato capitalista in Italia propugnando la dittatura del proletariato. L’organizzazione ha posto, come obiettivi, soprattutto politici, forze dell’ordine, responsabili di fabbrica, e dirigenti d’azienda. L’organiz-zazione è stata più attiva nelle città industriali del Nord Italia.
Si passa poi ad analizzare le differenze con le Brigate Rosse:
Prima Linea ha condiviso con le Brigate Rosse l'obiettivo di stabilire una dittatura del proletariato in Italia, ma i due gruppi erano rivali e raramente hanno collaborato. Molti fondatori di PL erano ex membri dissidenti delle BR che avevano lasciato a causa di importanti divergenze filosofiche. In primo luogo, i fondatori di PL respingevano la rigida gerarchia delle Brigate Rosse. Come risultato, PL aveva permesso alle sue cellule locali di operare con notevole autonomia dal Comando nazionale. In secondo luogo, i leader PL ritenevano che le BR avevano messo troppa enfasi sulla militanza ad esclusione di altre azioni politica. I militanti di PL, a differenza di quelli delle BR, non sono andati completamente in latitanza ma hanno spesso mantenuto la loro identità e i posti di lavoro e hanno partecipato ad attività politica palese, così come gli attacchi occulti, anche se i loro attacchi non meno violente di quelle del BR erano.
Quanto ai confini temporali dell’azione del gruppo, la ricerca della Stanford evidenzia come Prima Linea sia stata attiva tra il 1976 e il 1982, per lo più nelle città industriali del nord Italia, e come il declino sia iniziato con un’ondata di arresti e di diserzioni a partire dal 1980. Molti membri di Prima Linea, come detto, una volta detenuti iniziarono a collaborare con le forze dell’ordine, con un conseguente aumento di arresti. Alcuni membri si concentrarono allora sulla formazione di nuovi gruppi per la liberazione dei compagni che consideravano “prigionieri politici” mentre altri si unirono alle Br. Prima Linea venne formalmente sciolta in una conferenza tenutasi nel giugno del 1983, nel corso della quale i membri hanno dichiarato la lotta armata insufficiente per forzare la trasformazione sociale. Infine, una nota che si richiama a quanto già riportato in introduzione, in merito ai collegamenti internazionali del terrorismo. La ricerca della Stanford, a questo proposito, è molto chiara:
I membri di Prima Linea si sono addestrati con gruppi terroristici europei e hanno beneficiato di spedizioni di armi ricevute dalla Libia e Palestina. In Francia, i membri di Pl e l’organizzazione Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp) hanno collaborato e condotto rapine con il gruppo terroristico francese Direct Action (Ad). I membri di Pl hanno anche trovato rifugio sicuro in Francia. In Spagna, alcuni membri di Pl si sono addestrati con il gruppo separatista basco Eta. Gruppi di sinistra italiani tra cui Pl hanno comprato armi, tra cui fucili e lanciamissili, dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp). La Libia ha agito come intermediario in questi acquisti e separatamente ha venduto armi a più gruppi di sinistra italiani, tra cui la PL.
Anche per Prima Linea, quindi, si ripropone lo schema dello scacchiere internazionale, già descritto da Angelo Ventura, e che evidenzia lo scenario italiano come facente parte di un più ampio contesto riconducibile allo scontro bipolare caratterizzante la guerra fredda[18]. È il contesto in cui crebbero i militanti del terrorismo di sinistra in Italia.
3. Il carcere di Rovigo e il trasferimento delle terroriste
Il carcere di Rovigo, struttura risalente al 1875, era stato predisposto per ospitare fino a sedici detenute nella sezione femminile. Nel 1977 era infatti cominciata la creazione di istituti a massima sicurezza, che dovevano rispondere alla preoccupazione generata nell’opinione pubblica dall’elevato numero di evasioni e garantire un adeguato ed elevato controllo sui detenuti più pericolosi, sia politici che comuni. Nel 1979, si era imposta la necessità di individuare in Italia settentrionale almeno una sede relativamente idonea per ospitare detenute pericolose in quanto, essendo queste frequentemente richieste dagli uffici giudiziari del nord per ragioni istruttorie, si rendeva necessaria una collocazione logisticamente favorevole. Scartata l’idea di costruire sezioni di massima sicurezza in istituti di grandi dimensioni, come Milano e Torino, venne eseguita una ricognizione degli istituti minori, ma risultò che nessuno di questi era collocato in posizione tale da garantire, secondo quanto disposto dal nuovo coordinamento per la sicurezza degli istituti di prevenzione e pena, un pattugliamento esterno da parte di carabinieri. Si scelse comunque di puntare sul carcere rodigino, in quanto, in via comparativa, presentava condizioni che sembravano migliori per il controllo dei detenuti. In realtà così non fu. Come disse il ministro di Grazie e Giustizia, Darida, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, le terroriste vennero trasferite a Rovigo tra il 1980 e il 1981 ma il carcere era sicuro? A detta del ministro si. Eppure alcuni lavori previsti per il rafforzamento della sicurezza erano stati bocciati nel novembre 1980 dalla sovrintendenza dei beni culturali. Nel dicembre 1980 venne comunque realizzata la sopraelevazione di due lati del camminamento del muro di cinta con sovrastante camminamento di ronda, per un’altezza complessiva superiore ai dieci metri. Nel marzo del 1981, tuttavia, un’ispezione disposta dalla direzione generale del carcere rilevava, per la sezione femminile, pur sottolineando che la stessa offriva ogni garanzia di sicurezza, carenze di personale militare e civile e dei servizi. Le stesse carenze furono evidenziate da un’interrogazione del senatore Sega del 29 aprile 1981. Nel maggio dello stesso anno queste carenze furono ovviate dall’aumento del numero di vigilatrici, da sette a dodici (di cui quattro, però, assunte con contratto trimestrale). Non si trattava comunque di misure sufficienti, se è vero che il 7 agosto 1981 il ministro per l’interno segnalava, in via riservata, le carenze del carcere sotto il profilo della sicurezza, a fronte di una aumentata presenza di detenute pericolose. Queste carenze risultavano evidenti anche da alcuni episodi. Il 22 ottobre 1981, ad esempio, nel corso di una perquisizione straordinaria, venne rinvenuta, in un pacchetto di sigarette vuoto, una saponetta con impressa la forma di una chiave, probabilmente raccolta dalla detenuta Biancamano. Tale episodio spinse la direzione del carcere a richiedere al comando dei carabinieri e alla questura l’intensificazione della vigilanza esterna, assicurata con fonogramma del questore di Rovigo del 28 novembre dello stesso anno. Il 7 novembre intanto, in una riunione apposita, si era deliberato l’allontanamento di tutte le detenute pericolose dalla sezione femminile di Rovigo, operazione rallentata però dal non ancora ultimato approntamento delle sezioni femminili delle carceri di Pisa e Spoleto. Nel carcere rodigino furono installate dodici telecamere, mentre fu ripetutamente richiesto un servizio continuativo di sorveglianza esterna automontata, che a più riprese si era auspicato di trasformare da saltuario in permanente ogni qual volta fosse stato segnalato all’interno del carcere la presenza di detenuti ad alto titolo di pericolosità. Al momento dell’attentato, la sezione del carcere femminile di Rovigo era ristretta a dodici detenute, di cui ben otto “politiche a maggiore pericolosità”. Loredana Biancamano, arrestata nel dicembre 1977, fu incarcerata prima a Messina e poi Caltanissetta. Venne poi trasferita nella primavera del 1980 prima a Ragusa e poi da Milano a Rovigo, per interrompere l’attività di proselitismo svolta tra le detenute comuni. Federica Meroni, arrestata nel dicembre 1980, fu detenuta prima a Pozzuoli, poi a Pescara e infine, dal 27 agosto 1981 spostata a Rovigo. Nel carcere abruzzese infatti, la sezione femminile era superaffollata (21 detenute sui 13 posti previsti) e la Meroni aveva svolto intensa attività di proselitismo. Marina Premoli, era stata arrestata il 15 giugno 1981 e assegnata a Rovigo, anche se in realtà era stata destinata a Brindisi. Ma a spingere per la soluzione rodigina era stata anche una istanza inviata all’ufficio competente e giustificata dalle cattive condizioni di salute del padre. Susanna Ronconi, infine, arrestata il 3 dicembre 1980, fu assegnata a Ferrara ma reclusa prima a Campobasso, e poi, data la riconosciuta insicurezza del carcere molisano, trasferita a Rovigo il 5 febbraio 1981. Quattro pericolose detenute insieme a Rovigo. Ma il rischio non fu sottovalutato? Secondo il ministro Darida, no. La sola Biancamano era stata reclusa in un istituto a maggior indice di sicurezza e quella di Rovigo era stata considerata una sede capace di offrire garanzie in termini di sicurezza.
4. L’attentato: 3 gennaio 1982
I terroristi scelsero di colpire il 3 gennaio 1982. Era una domenica pomeriggio, e Rovigo vedeva il disputarsi di due incontri sportivi di richiamo. Allo stadio Mario Battaglini, la partita del massimo campionato nazionale di rugby tra Rovigo e Amatori Catania. Al Gabrielli il Calcio Rovigo affrontava il Ravenna per una partita del campionato di Interregionale. Entrambe le partite rastrellarono un discreto numero di elementi delle forze dell’ordine. I terroristi lo sospettavano, lo sapevano. Avevano pianificato tutto. Avevano rubato un auto, una Autobianchi A112 e l’avevano imbottita di esplosivo, parcheggiandola in Via Mazzini, presso il muro di cinta del carcere che dava sul cortile interno. Si erano armati a puntino. Consci dell’orario in cui le detenute sarebbero state in cortile per le ore di passeggio (L’orario invernale era stato fissato dalle 13.30 alle 15.45)[19], con una perfetta sincronia entrarono in azione. Alle ore 15.45, mentre le quattro detenute rientravano in sezione, il commando cominciò a prendere di mira la sentinella che si trovava sul muro di cinta che dà su via Mazzini sparando da angoli defilati e protetti dai palazzi circostanti. Le guardie risposero come poterono. L’agente Di Paola, sentinella sull’altro angolo del muro di cinta, raggiunse il collega e cercò di sparare in modo preciso sui membri del commando, senza tuttavia centrarli. Nel frattempo, l’autobomba veniva fatta esplodere e provocava un ampio varco nel muro di cinta del carcere. Dell’esplosione approfittavano le quattro detenute, Loredana Biancamano, Federica Meroni, Marina Premoli e Susanna Ronconi: prima immobilizzarono la vigilatrice, e poi si dileguarono attraverso il varco, evadendo. L’esplosione provocò la morte del pensionato Angelo Furlan[20], a passeggio con il suo cagnolino. Alcuni giorni più tardi, poi, morì di infarto Renato Alfonso[21], 60 anni, la cui casa era stata investita dall’esplosione. Il ministro di grazie e giustizia Darida, così interpretò l’attentato:
Le carceri restano il punto focale dell’attacco delle Brigate rosse alle istituzioni democratiche. L’eversione terroristica ha individuato, fin dal suo primo apparire, il sistema penitenziario come l’obiettivo prioritario su cui riservare la sua furia aggressiva e omicida. Tutta la sua monotona e pletorica pubblicistica indica il carcere come la struttura da attaccare e da distruggere. […] si deve prendere, quinti, atto che l’istituzione più esposta e sottoposta a terribili tensioni dall’interno e dall’esterno è il sistema penitenziario. Ad esso ed agli uomini che in essi operano servendo l’intera società, va rivolta la massima attenzione dello Stato e della collettività tutta. […] l’attacco di Rovigo costituisce un salto qualitativo: esso si è svolto con le modalità di una vera e propria azione militare, che, se non raggiunge i livelli della guerriglia sudamericana, si avvicina a quella nord-irlandese o basca.
In sostanza, il ministro riconosceva che con l’attentato di Rovigo iniziava una nuova stagione e che lo stato e l’amministrazione penitenziaria non erano del tutto adeguate per fronteggiarla:
Il problema della sicurezza delle carceri non è più quindi soltanto quello dell’antievasione ma anche sicurezza antintrusione; non più con le forme di intrusione sinora esercitate, ma attraverso l’azione di un vero e proprio commando. Un tipo di azione di questo genere solleva gravi preoccupazioni in quanto non è facile, allo stato attuale dell’edilizia penitenziaria e del grado di addestramento del personale, fronteggiare attacchi di questo tipo. Di fronte alla rapidità, alla durezza, alla audacia dell’azione terroristica debbo dire con franchezza che l’amministrazione penitenziaria nel suo complesso ha molti problemi da risolvere per dare una risposta complessivamente sufficiente.
5. L’eco dell’attentato nella stampa del tempo
L’indomani dell’attentato, i giornali si occuparono copiosamente degli eventi, evidenziandone gli elementi caratterizzanti ma non sottovalutando critiche alla scarsa sicurezza del carcere e riportando denunce che già ne avevano sottolineato i limiti. Tra i giornali nazionali più interessanti L’Unità e La Stampa, da cui traiamo alcuni spunti preziosi. Il 5 gennaio il quotidiano comunista sottolineava come l’attentato fosse stato compiuto da un commando numeroso e come fossero inconsistenti i servizi di sorveglianza[22]. Sui problemi del carcere insisté anche il magistrato Giovanni Tamburino (per molti anni magistrato di sorveglianza a Padova), intervistato da Michele Sartori, che sottolineava le scarse misure di sicurezza, la pericolosità della collocazione del carcere e di via Mazzini, considerato punto di evidente vulnerabilità. Il magistrato ricordava inoltre sul facile raccordo tra interno ed esterno e sui segnali che già a Rovigo avevano testimoniato che qualcosa non andava: continue aggressioni alle vigilatrici da parte delle detenute, la collocazione dello spazio riservato per l’ora d’aria in cortile proprio a ridosso del muro di cinta. Il magistrato, laconico, chiudeva con una frase che diede il titolo all’intervista: «Quel piano di fuga? Lo poteva ideare anche un bambino»[23]. Quelle carenze, stando ancora al giornale del Pci, erano state denunciate già da tempo. Si dà conto, infatti, dell’interrogazione presentata il 29 aprile dell’anno precedente dal senatore Vittorio Sega, che raccoglieva le «segnalazioni ripetute ed allarmate delle autorità del carcere veneto e della polizia». Sempre sullo stesso giornale, Ibio Paolucci tentava una ricostruzione relativa ai possibili organizzatori dell’evasione spiegando come Prima Linea, indebolita dalle inchieste e dalle rivelazione dei pentiti, in una fase che si potrebbe definire di sbandamento, rappresentava un pericolo in più. I terroristi scampati alla cattura, rappresentavano individui pronti a tutto, determinati, e ancora in grado di programmare azioni laddove lo stato e le sue strutture poteva dimostrare incertezze, falle e problematiche. Infine il 6 gennaio, Alessandro Galante Garrone, dalle pagine de La Stampa, provava a interpretare l’attentato anche sei suoi effetti politici e morali, chiedendosi se era più impressionante l’efficienza dei terroristi o l’inefficienza dello stato[24]:
Di fronte all'evasione di Rovigo, non sapremmo dire se sia più impressionante l’efficienza dimostrata dai terroristi, o la lacrimevole prova di inefficienza degli apparati pubblici. Che quel carcere fosse insicuro (o che addirittura la voce di un imminente attacco fosse giunta alle autorità), che comandi dei carabinieri, magistrati, direzione degli istituti di pena fossero in allarme o consapevoli della precaria situazione di quel vecchio convento, che segnalazioni e rapporti fossero caduti nel nulla, e che anzi proprio 11 fossero state concentrate le terroriste più pericolose, è fuori discussione. L’insipienza è stata tale, da assumere le sembianze della più cieca e benigna tolleranza, per non dire di peggio. Più volte abbiamo detto che, nella lotta al terrorismo, il problema delle carceri è diventato il più grave e il più urgente. Uomini come Pertini e Valiani, che hanno ben conosciuto le prigioni fasciste, hanno purtroppo ragione di dire che oggi quel che manca è la sorveglianza, il necessario rigore. Non ci si venga a dire, a mó di scusante o di attenuante, che le drastiche misure atte a garantire la sicurezza contro le evasioni dall’interno o i concertati attacchi dall’esterno urterebbero contro la riforma del 1975. Non è vero. Pregiudiziale ad ogni sistema carcerario, ad ogni attua zione di moderne riforme, una seria ed effettiva disciplina, che di per sé può (e noi diciamo: deve) conciliarsi con un trattamento ispirato a quel «senso di umanità» voluto dalla nostra Costituzione (art. 27). Le misure di vigilanza devono essere in concreto adeguate alla pericolosità dei detenuti. Il rispetto dovuto a ogni essere umano non può trasformarsi in lassismo, in supina abdicazione nei confronti della più incallita delinquenza. Per fare un solo esempio, non si può consentire che i detenuti possano tranquillamente telefonare all’esterno, senza alcun controllo: come sembra facessero le fuggitive di Rovigo, con i risultati che poi si son visti. Se oggi si può parlare senza enfasi della nostra realtà carceraria come di un inferno allucinante, è per l'inestricabile groviglio di molti problemi tra loro connessi: la violenza esercitata dai capi su compagni di detenzione e le minacce verso gli stessi agenti di custodia, il numero esiguo, la fatica sfibrante, l’indegno trattamento economico di questi ultimi, gli omicidi preordinati e freddamente eseguiti, le detenzioni preventive che si prolungano oltre ogni decenza, il sovraffollamento. Non ci si può illudere di estirpare questa cancrena con palliativi e rappezzi. Ci vogliono provvedimenti legislativi e amministrativi, straordinari mezzi finanziari, assunzioni e addestramento di nuovo personale, apprestamento di edifici idonei. E' sperabile che lo smacco di Rovigo induca ad affrettare i tempi. E neanche ci si può illudere che tutto possa essere eseguito in quattro e quattr’otto, come da qualche parte un pò fatuamente si richiede. Ma a questo proposito va fatto, senza reticenze, un ultimo rilievo. Si ha l’impressione che, da parte di alcuni partiti e, per conseguenza, del Parlamento, si sia allentata la guardia contro il terrorismo, e si indulga un pò troppo a tergiversazioni, ammorbidimenti, ripensamenti. Questa sarebbe la più funesta delle tendenze, che nessun calcolo di opportunismo politico varrebbe a giustificare. Il più inquietante segno di una siffatta tendenza ci è dato dall’arenarsi del dibattito in Senato sulla legge dei terroristi «pentiti»: e giustamente Spadolini vi si è richiamato in queste ultime ore, nella sua conferenza stampa. Ci si decida finalmente a varare questa legge: facendo salve, da un lato, le esigenze di un pieno vaglio dibattimentale delle dichiarazioni rese in istruttoria, e dall'altro, per quel che riguarda i cosiddetti «piccoli pentiti», o «dissociati», la subordinazione di ogni beneficio alla dimostrazione in concreto, affidata a riscontri obiettivi e confessioni precise ed esaurienti, della sincerità della dissociazione. Il tribunale non può ridursi al segreto di un confessionale, o contentarsi di pretesi ravvedimenti morali, che potrebbero anche essere ad arte simulati: ma vuole, secondo i prìncipi giuridici, fatti univoci e concordanti.
L’attentato di Rovigo mise quindi in forte dubbio sicurezze e aspettative di un percorso di lotta al terrorismo che sembrava aver marcato, in quel momento, alcuni passi avanti.
6. Conclusioni
L’attentato di Rovigo pose con forza all’attenzione del mondo politico la situazione del sistema penitenziario italiano collegato alla lotta al terrorismo e rappresentò forse l’ultima scintilla scatenata da ciò che restava di Prima Linea. Proprio nei primi anni ottanta, infatti, lo stato portò a compimento la vittoria in una guerra che aveva insanguinato una lunga stagione. Di Rovigo, e di quel 3 gennaio 1982 resteranno le due vittime innocenti (senza contare i feriti e i danneggiati dall’esplosione) e la forte impressione destata nell’opinione pubblica da un atto di inaudita violenza, nuovo attacco al cuore dello stato che si materializzava negli istituti di detenzione. Con l’occhio critico di chi ha oggi la possibilità di una attenta riflessione, alcuni elementi penso vadano sottolineati, in primis la sottovalutazione del pericolo derivante dall’inadeguatezza del carcere rodigino, che pare quanto mai evidente anche dagli interventi dell’epoca. Se Rovigo si trova a piangere i suoi morti, è perché ci fu chi non prestò la dovuta attenzione alle segnalazioni di pericolo giunte da più fronti. La tragedia di Rovigo, possiamo affermarlo ormai con certezza, era possibile, anzi, preventivabile. Non furono messe in campo le adeguate misure strutturali e di sorveglianza, e l’attentato risultò piuttosto “comodo” nella sua pianificazione e realizzazione. Pare di poter capire, infine, che Rovigo non fosse considerata una realtà organica con la geografia del terrorismo veneto. Eppure, anche il capoluogo polesano aveva vissuto la stagione dell’autonomia, e rappresentava, logisticamente, un’area di passaggio e collegamento tra Veneto ed Emilia Romagna, tra le direttrici Padova-Bologna. Poteva pertanto essere una buona zona per la latitanza, il rifugio, il deposito e il passaggio di armi a materiali. Il 3 gennaio 1982 Rovigo si svegliò, tragicamente, dal torpore che sembrava caratterizzarla. Il terrorismo rosso, quello violento, che i rodigini erano abituati a vedere in televisione, a leggere sul giornale, aveva colpito in centro città, segnando la vita di molti uomini e donne, e portando un alone di lutto su una comunità che si vedeva colpita, da un atto che mai avrebbe immaginato realizzarsi in una zona abitualmente e convenzionalmente tranquilla.
Leonardo Raito (Rovigo 1978) insegna storia contemporanea all’Università di Padova. Ha insegnato anche a Ferrara, Capodistria, Pola e Valencia. Studioso dei conflitti del novecento, ha al suo attivo oltre cinquanta pubblicazioni. Tra i suoi libri più importanti Comunisti ai confini orientali (Padova, 2010), Gaetano Boschi, sviluppi della neuropsichiatria di guerra (Roma, 2010), Terrorismo e mondo nuovo (Roma, 2013) e il recentissimo Rovigo, 3 gennaio 1982. Memorie e cronaca di una tragedia possibile (con C. Zanirato, Adria, 2015).
[1] Vedasi le dichiarazioni del presidente Pertini, La Stampa, 5 gennaio 1982, p. 11.
[2] A tal proposito, ritengo di grande interesse la pubblicazione dei diari di uno dei principali collaboratori di Pertini nel periodo presidenziale, Antonio Maccanico. Vedasi: A. Maccanico, Con Pertini al Quirinale. Diari 1978-1985, a cura di P. Soddu, Bologna, Il Mulino, 2014.
[3] Vedasi, a tal proposito, l’articolo di G. Marchesini, Padova, attentato a docente. Reagisce, spara ai terroristi, in “La Stampa”, 27 settembre 1979, p. 5
[4] Mi riferisco in particolare ad A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, Roma, Donzelli, 2010.
[5] A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, cit., pp. 46-48.
[6] Ibidem, p. 6.
[7] Tra tutti, vedasi P. Calogero, C. Fumian, M. Sartori, Terrore rosso. Dall’autonomia al partito armato, Roma-Bari, Laterza, 2010; A. Naccarato, Violenze, eversione e terrorismo del partito armato a Padova: le sentenze contro Potere operaio, Auotonomia operaia e Collettivi politici veneti, Padova, Cleup, 2008.
[8] P. Calogero, C. Fumian, M. Sartori, Terrore rosso.., cit., p. 188.
[9] Ibidem, p. 189.
[10] P. Calogero, C. Fumian, M. Sartori, Terrore rosso.., cit., p. 189.
[11] P. Calogero, C. Fumian, M. Sartori, Terrore rosso.., cit., p. 190.
[12] Silvio Gori, detto Sergio, era nato a Bengasi il 14 ottobre del 1932. Laureatosi in chimica, in Veneto dal 1974, fu vicedirettore dello stabilimento Montedison di Marghera. Lasciò la compagna, Maria Letizia, e la figlia Barbara, di 17 anni.
[13] Alfredo Albanese, nato a Trani il 9 gennaio 1947, ed era a Venezia, in servizio presso la questura lagunare, da metà degli anni settanta, diventando responsabile della sezione antiterrorismo. Incaricato delle indagini sull’omicidio di Sergio Gori, venne trucidato da un commando delle Br il 12 maggio 1980.
[14] Giuseppe Taliercio, nato a Carrara l’8 agosto 1927, una laurea in ingegneria a Pisa, ottenne nel 1952 un impiego in Edison a Portomarghera. Militante dell’azione cattolica, nel 1954 sposò Gabriella e si trasferì a Mestre. La coppia ebbe cinque figli. Rapito dalle Br il 20 maggio 1981, dopo 46 giorni di prigionia venne trucidato con 17 colpi di arma da fuoco e il suo corpo fu rinvenuto nel bagagliaio di una 128, poco lontano dallo stabilimento che aveva diretto.
[15] S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992, p. 428.
[16] Segio ha delineato la storia dell’organizzazione in un paio di libri di memorie, che appaiono oggi interessanti, anche se in alcuni tratti giustificatori: S. Segio, Una vita in Prima Linea, Milano, Rizzoli, 2006; S. Segio, Miccia corta. Una storia di Prima Linea, Roma, Deriveapprodi, 2009.
[17] L’archivio completo della mappatura effettuata dalla Stanford University è consultabile al link: http://web.stanford.edu/group/mappingmilitants/cgi-bin/groups/view/137
[18] A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, cit., p. 33.
[19] Particolarmente utile, ai fini della ricostruzione dei particolari dell’attentato, la risposta del ministro di grazia e giustizia Darida, all’interrogazione parlamentare dell’onorevole Antonio Zanforlin, 1 marzo 1982, che fa da corollario a questo volume.
[20] Angelo Furlan, classe 1917, era iscritto al Pci. L’Unità gli dedicò un ritratto, il 5 gennaio, che raccontava la vita di un uomo per bene, grande e umile lavoratore, sposato, una figlia. Il telegramma del segretario del partito, Enrico Berlinguer, ribadiva la necessità di difendere i cittadini innocenti e le istituzioni dal terrorismo.
[21] Quella di Renato Alfonso è la morte “dimenticata” dell’attentato. Viveva proprio di fronte al muro di cinta fatto saltare dal commando. L’esplosione aveva mandato in frantumi tapparelle e infissi della casa, facendo anche danni al tetto. Lo choc, unito alla preoccupazione per le sorti del cognato, sottufficiale delle guardie nella stessa struttura penitenziaria, gli avevano provocato un infarto.
[22] M. Cavallini, Venti br nell’assalto al carcere, “L’Unità”, 5 gennaio 1982, p. 1
[23] L’Unità, 5 gennaio 1982, p. 5.
[24] A. Galante Garrone, Lo smacco di Rovigo, La Stampa, 6 gennaio 1982, p. 1.
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